LASCIAMO PERDERE di Marco Bergamini Continuavo a scavare. La pioggia aveva reso la terra viscida ed insidiosa; a tratti scivolavo nella fossa. Ma non dovevo smettere. Il buco doveva essere pronto prima della mezzanotte, prima dell'arrivo di Albert. Confesso che, se qualche mese or sono mi fossi sorpreso a pensare di potermi trovare, in una notte di meta' agosto, a scavare buche nel cimitero di Deadfield, mi sarei messo a ridere di me stesso. Ma non c'era ragione per ridere, e non dovevo smettere. Mi chiamo John Wax, e studio medicina. Albert e' mio amico, e, da diversi anni, e' anche un mio paziente. Forse, sarei piu' sincero se dicessi che Albert e' un amico tanto quanto una pulce e' in confidenza col cane che l'ospita. Ma lasciamo perdere... "Eccomi..." La voce di Albert mi fece trasalire. "Sei arrivato, dunque!" Il mio tono era sprezzante e infastidito; ma lui non parve coglierne il senso, o comunque non ci bado' molto. Senza farci caso, s'era armato della propria pala ed aveva cominciato ad allargare i bordi della fossa. "Deve essere piu' larga, John!", disse. E ripete' quell'interessante annuncio per almeno dieci volte di seguito. "La terra e' molle, e si scivola...", gli risposi per calmarlo. Ma non c'era modo di portare la quiete trai pensieri di quella mente. I suoi occhi erano lo specchio del turbinio di preoccupazioni che lo attanagliavano, accavallavandosi una dopo l'altra nel suo cervello malato. Gia', perche' Albert ha qualcosa di simile ad cancro al cervello, e non vivra' a lungo. Ma lasciamo perdere... Sedevamo ai lati della fossa. Albert sembrava convinto che le dimensioni fossero giuste. Ciononostante, continuava a camminare lungo il perimetro romboidale, limando i bordi con le mani, come se volesse modellarne l'argilla per renderla piu' scivolosa. "Accidenti...", esclamai. L'acqua continuava a cadere abbondantemente, e la fossa era quasi una piscina. Ma cio' che piu' mi preoccupava era che il mio impermeabile aveva oramai ceduto, e che le grosse gocce fluivano direttamente sul mio corpo. "Mi prendero' un raffreddore, Albert, se restiamo ancora qui; forse, anche una polmonite." Ma lui non mostrava di far caso alle mie parole. "Sei sicuro che la profondita' fosse di sette piedi e sette pollici?", mi grido' nel buio. Un lampo rischiaro' il cielo, brillando nelle gocce d'acqua come riflesso in milioni di frammenti di specchio. "Certo, sette piedi. L'ho misurato almeno dieci volte..." Mi fu addosso. Mi fissava negli occhi con lo sguardo sbarrato, come un esaltato. Ebbi paura di lui. "Sette piedi e... sette pollici... vero?", scandi' le parole, mormorandole ad una ad una. Mi avrebbe ammazzato, sembrava dire, se anche quei sette pollici non fossero stati scavati. "Certo, Albert! E sette pollici! Li ho misurati.", ribadii lentamente, per tranquillizzarlo. Ma io non sono un becchino. Sono un medico. E su quei sette pollici non ci potrei giurare davvero. Ma lasciamo perdere... "Che ore sono, John?" Guardai il mio orologio da tasca. Per fortuna, e' resistente all'acqua. "Qualche minuto alla mezzanotte, Albert." Lui annui' concentrato. "E' meglio che ci prepariamo, tra poco accadra'..." Si mise in piedi nei pressi dell'angolo acuto che avevo scavato in direzione del tramonto. Ma pioveva. La sua richiesta era cosi' frivola e priva d'importanza. Non ero sicuro che fosse veramente rivolto ad occidente. E se lo era, probabilmente si trattava d'una casualita'. Carico' lui stesso la pistola. Me la pose in mano, con il cane alzato, pronta a sparare. "Un colpo solo! Un colpo solo, qui!, al cervello." E per essere sicuro che avessi compreso, indico' con l'indice il centro della fronte. "Dobbiamo essere precisi...", continuo'. "Tutto deve avvenire sette secondi dopo la mezzanotte." Non fece in tempo a concludere che dal paese di Deadfield s'udirono i rintocchi secchi del campanile. Li contammo. Pregavo perche' non fossero davvero dodici. Tacemmo per qualche istante, dopo l'ultimo rintocco; Albert scandi' a voce alta lo scorrere dei sette secondi. "E' ora! Spara!", grido' quando fu il momento. Una saetta cadde sul cipresso piu' alto del cimitero. Nel fragore dello scoppio il colpo di pistola non si percepi' nemmeno. Per quale ragione mi fossi lasciato convincere, io non lo so proprio pensare. Solo a questo, riuscivo a pensare ora. Certamente, la notizia di quanto era successo sarebbe bastata a farmi radiare dall'universita'. Senza contare che avevo assassinato un mio paziente. Ero terrorizzato. Non mi assicurai d'averlo colpito alla testa, e, contro le sue indicazioni, non mi fermai a ricoprire la fossa. Il suo corpo galleggio' per un poco. Poi, affondo' nell'acqua melmosa. In quella stessa motta, gettai la pistola, e scappai via. Ma lasciamo perdere... Notti come quella si ripetono, molto probabilmente, solo ogni cento anni. Comunque, a cicli epocali. Oggi che sono un vecchio ammetto che sono stato molto fortunato, nessuno risali' a me a causa della morte di Albert. La pistola non aveva impronte digitali perche' l'acqua le aveva dilavate, e l'uomo che vi giaceva dentro aveva ottime ragioni per essersi ucciso. E' vero che la polizia indago' per qualche tempo, dimostrandosi nei miei confronti particolarmente pressante. Ero un amico di Albert, e quindi sembrava loro logico che avessi dovuto conoscere l'intenzione, a lungo covata, di uccidersi. Ma davvero, non so se fu la paura di finire in prigione, oppure l'intervento di qualche angelo, recitai la parte dell'ingenuo in modo perfettamente calmo e sicuro, tant'e' che il caso venne archiviato, ed Albert fu dichiarato suicida. Povero ragazzo, con quella malattia al cervello, aveva fatto bene a farla finita. Io potei continuare gli studi. Negli anni successivi, dimenticai la faccenda, e mi dedicai esclusivamente all'esercizio della professione. M'ando' piuttosto bene, perche', ben presto, nel mio studio di Londra vennero pazienti dell'alta societa' e della ricca borghesia. Ma lasciamo perdere... Fu il fragoroso rumore d'un tuono a svegliarmi nel cuore della notte. I lampi illuminavano la stanza quasi ininterrottamente. Il mio cuore batteva impazzito. Ero terrorizzato. Non lo e ro cosi' tanto da quella notte... "Oh Dio, e' solo un tuono", pensai. Ma non mi sentivo tranquillo. Tra gli armadi e la libreria, nei pressi dello scrittorio, vicino alla pianta ornamentale, dietro alle tende, nello specchio, percepivo una presenza. E non faticai a darle un nome. "Albert", mormorai, scoprendo che la mia voce vibrava per la paura. "Sei tu, Albert?" "Sono io...", rispose l'ombra. L'oscurita' era troppo densa, e i lampi non mi permettevano d'identificare la sua posizione nella camera. "Quanto tempo e' passato... cent'anni, forse?". Mentre dicevo questo, cercavo sul comodino le mie pillole per il cuore. "Settantassette anni, sette mesi e sette giorni." "Sei sempre stato un tipo cosi' preciso...", ridacchiai. Ma si sentiva quanto isterica e falsa fosse quella risata. "Hai sbagliato tutto, John!" "Non ti capisco... Cosa intendi dire, Albert?" La tenda si mosse, ed intravvidi la sua figura. Allo stesso tempo, percepii l'odore del suo corpo... morto. "La fossa non era abbastanza profonda, John!" "Oh, dai Albert, non saranno stati quei pochi pollici in piu' o in meno a renderti cosi'..." Vidi il suo viso. Voltai la testa. Non potevo sopportare quell'orribile maschera. "E' vero, non e' stata la profondita' della fossa ad impedire alla mia anima il sonno eterno..." Mi pose i resti della sua mano sul capo, e mi obbligo' a guardarlo negli occhi. "Dovevi sparare nel centro della mia testa, John!", grido'. "Dovevi sparare qui!" E s'indico' la fronte. "Ma hai colpito qui...", il tono era sceso d'un'ottava ed esprimeva rammarico. Le sue dita, intanto, scivolarono lungo il viso fino al collo. "Ma sei morto lo stesso, e' una ferita mortale, accidenti, Albert!" Stavo piangendo. Volevo che mi liberasse, che mi lasciasse andare; erano passati tutti quei maledettissimi anni. "No, stupido! Non sono morto." Mi spinse contro la spalliera del letto. "Oh John, e pensare che mi fidavo di te. Quanti ne hai portati alla tomba, fino ad oggi? E non sei nemmeno capace di assicurare loro la morte eterna. Sei un incapace, John!" Si guardo' in giro come richiamato da qualcosa. "Mi stanno cercando, John... Tra poco dovro' andare." "E allora vattene!", gridai spaventato. "Oh John, dottor John, ma non l'hai ancora capito? Non me ne andro' via da solo. Questa notte, sono venuto per te!" Gridai, cercai di liberarmi; inutilmente. Ma lasciamo perdere... In fondo, vivere con Albert non e' poi cosi' male. Ogni settantasette anni, sette mesi e sette giorni, sette secondi dopo la mezzanotte, sentiamo quel languore allo stomaco che un tempo, in vita, avremmo chiamato fame. Vaghiamo un po' in giro per il cimitero. Albert e' davvero coraggioso, e qualche volta superiamo la cinta delle mura, e andiamo in paese a cercare qualcosa da mangiare. Non avevo mai pensato alla mia vita sotto questo punto di vista, e non mi dispiace affatto. Se non altro, essendo gia' morto, non moriro' piu', pur essendo, a tutti gli effetti, vivo. Albert ed io c'intendiamo alla meraviglia, ora. Sembra quasi che condividiamo lo stesso unico pensiero: carne. Ed ora lasciate che il mio povero corpo decomposto provi un po' di sollievo adesso che mi nutro di cervelli. In fin dei conti, che importa? Lasciamo perdere...